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la città produttiva

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mappa dei luoghi - la città produttiva

Si può affermare che Roma non possieda una tradizione industriale?
Sul punto, il “mainstream” dominante ha da sempre accreditato l’idea di una città “burocratica”, la cui attività “core” è costituita dall’area politico-amministrativa intesa in senso ampio, con tutto quello che vi gravita attorno.
A ben guardare, tuttavia, la città non è estranea alla presenza di una vivace realtà di piccola industria e manifattura artigiana che fin dall’inizio del secolo si concentrava in vere e proprie aree attrezzate come sull’Ostiense e in seguito sulla Tiburtina, con qualche impianto di dimensioni anche rilevanti, anche se, sia i numeri dell’impiego industriale vero e proprio, sia le dimensioni delle imprese e il loro orientamento produttivo, segnano una distanza molto marcata tra l’industria a Roma e quella dei grandi centri dell’Italia settentrionale.
“Roma come Capitale, dopo la Seconda guerra mondiale, poté mantenere un ruolo preminente di centro di mediazione politica, ma non venne assolutamente prevista una vera e propria riconversione delle industrie installate durante il conflitto, date le scarse risorse pubbliche e la mancanza di volontà dell’imprenditoria privata di rischiare investimenti su un tessuto già strutturalmente considerato debole e su cui gravavano più fattori critici, alcuni endemici della provincia capitolina, altri che solo allora si stavano configurando in maniera chiara.” (Giovanni Pietrangeli, Roma e la sua industria, un punto di vista sul secondo dopoguerra, Edizioni Ca’ Foscari, 2017).
Nel 1962, il primo Piano regolatore generale del dopoguerra, previde la realizzazione di un “asse attrezzato” nel quadrante orientale della città, ovvero di una infrastruttura logistico/viaria intorno alla quale collocare le attività di carattere direzionale e di servizio, con lo scopo di essere la spina dorsale del cosiddetto Sistema direzionale orientale (SDO), ovvero il fulcro della riorganizzazione amministrativa della città in previsione della sua espansione verso sud-est. Lo SDO rimase un progetto incompiuto ed insieme ad esso la città rinunciò, probabilmente per sempre, alla organizzazione programmata dello sviluppo del territorio; il decentramento dei servizi amministrativi della città verso la periferia sud-est avrebbe naturalmente comportato la riorganizzazione del territorio compreso tra Tiburtina e Tuscolana e, conseguentemente, della più importante area di localizzazione industriale romane.
Inoltre, dopo l’estensione dei confini della Cassa del Mezzogiorno, nel 1955, la delocalizzazione rappresentò la maniera con cui amministratori e operatori economici tentarono di distribuire il peso demografico e ampliare il mercato del lavoro, liberandosi dalle diseconomie connesse al mantenimento di un tessuto industriale urbano, lasciando di fatto spazio alle speculazioni e allo sviluppo della proprietà immobiliare. Espellendo, seppur indirettamente, le attività industriali dalla città, venne infatti facilitata l’espansione residenziale auspicata dalla potente proprietà fondiaria capitolina. In particolare, si verificò che l’attrazione delle localizzazioni industriali e dei conseguenti investimenti in area Casmez, comportarono una consistente migrazione di popolazione verso questi nuovi bacini produttivi e il conseguente aggravamento delle condizioni generali delle infrastrutture e dei servizi, generando un corto circuito nefasto nel rapporto tra città e hinterland e producendo un forte squilibrio delle condizioni socioeconomiche per l’intero territorio regionale. In buona sostanza, quindi, la mancanza, ancora una volta, di una politica del territorio, lasciava il sistema produttivo della capitale in balia delle sue debolezze e le attività produttive rimasero ostaggio delle commesse pubbliche e del settore delle costruzioni.
Nonostante la città abbia pertanto mostrato, nel tempo, segni di vitalità economica, anche e soprattutto in alcuni settori innovativi come l’elettronica e l’ICT, Roma era e rimane fortemente ancorata ai destini del comparto dell’edilizia. Oggi come ieri la Capitale risponde a due soli interessi dominanti, la politica e i palazzinari e dalla loro alleanza la città ne esce per quello che è visibile a tutti: uno scambio di favori continuo che vaga dal project financing al real estate development; conservando gli stessi nomi del boom economico-cementizio degli anni Sessanta, ha prodotto uno sviluppo disordinato non soltanto del tessuto urbano e residenziale, ma anche di ogni altro aspetto della vita sociale, non immuni le attività produttive.
Laddove nelle grandi metropoli lo sviluppo del tessuto urbano è accompagnato dallo sviluppo di aree produttive coerenti con l’impianto urbanistico e logistico, a Roma anche le aree di insediamento industriale si sono sviluppate in modo approssimativo ai margini della città, contribuendo all’idea complessiva di una città disordinata e disorganizzata, che trova nelle sue capacità di adattamento spontaneo e progressivo, la forza per sopravvivere al tempo. Lo stanziamento spontaneo di attività produttive e popolazione nelle aree limitrofe a Roma non è stato mai accompagnato dall’integrazione di funzioni e infrastrutture tra la città centrale e il territorio periferico.
A tutt’oggi la localizzazione delle aree produttive conferma, grosso modo, le direttrici storiche dello sviluppo cittadino, collocandosi essenzialmente lungo le principali vie consolari e producendo cisti metastatiche nel tessuto urbano, spesso senza soluzione di continuità con gli ambienti residenziali, tanto che lo stesso Gran Raccordo Anulare ha finito per diventare una vetrina di attività commerciali e produttive e l’unica direzionalità in grado di mettere a sistema tutti i principali luoghi e direttrici delle attività produttive romane (La città del Grande Raccordo Anulare, Marco Pietrolucci (a cura di), Gangemi, 2013).

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