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Ma che bella città

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il libro di www.machebellacitta.it

A Roma, a partire dall’inizio degli anni Cinquanta, l’attività di edificazione immobiliare interessò quasi esclusivamente le zone periferiche e suburbane della città, sfruttando un ampio patrimonio di aree edificabili, a disposizione dei principali proprietari fondiari della città.
Questo processo si inserisce in un disegno complessivo che ha sempre messo al centro delle politiche di sviluppo, le attività legate all’edilizia e alla rendita fondiaria.
Per valorizzare il patrimonio fondiario e le costruzioni si è assecondato un processo molto intenso di espansione incontrollata delle città, con il risultato di produrre rapidamente una rivalutazione del patrimonio immobiliare che ha spinto molti a cercare riparo abitativo nelle zone periferiche a più basso costo. Tutto questo agevolato da una serie nutrita di provvedimenti legislativi che, a partire dal 1994, hanno fortemente depotenziato il governo del territorio e la programmazione urbanistica. Il 2007 fu l’anno dell’approvazione del Piano regolatore di Roma con cui venivano consegnati alla speculazione fondiaria più di 80 milioni di metri cubi di cemento (Paolo Berdini, “Le città fallite”, Donzelli editore 2014).
Da sempre, quindi, questo sviluppo incontrollato dell’edilizia residenziale accompagna l’inesorabile e disordinata espansione di Roma verso la periferia, con un nucleo centrale sempre meno abitato ed interessante per la vita “civile” della città. L’espansione dal centro alla periferia. fisiologica in tutte le città, non vede a Roma uno sviluppo omogeneo; il tessuto urbano, soprattutto nelle aree periferiche, appare prevalentemente frammentato, con gli edifici, le strade e le coperture artificiali che si intrecciano e coesistono con ampie zone coperte da vegetazione e suolo nudo che occupano in maniera discontinua aree non trascurabili.
Il fenomeno procede per salti progressivi man mano che ci si allontana dal centro storico: appena di fuori delle Mura Aureliane, intorno a cui gravitano quasi tutti i 22 rioni di Roma e la maggior parte dei quartieri storici della capitale, lo sviluppo delle aree edificate e della viabilità si mostra continuo, come è il caso dell’Appio-Latino, o dei quartieri Flaminio, Monte Sacro, Parioli, Salario/Trieste e Trionfale.
Intorno ai quartieri storici iniziano le zone residenziali a tessuto discontinuo, di cui fanno parte i tessuti abitativi che si sono sviluppati negli ultimi sessant’anni e che possiamo suddividere, per semplificazione, in quartieri storici, borgate ufficiali, borgate spontanee e nuovi quartieri.
I quartieri storici sono quelli del Tiburtino, del Tuscolano, di Ostiense, sviluppatisi per lo più dopo la Seconda guerra mondiale ed hanno uno sviluppo residenziale che alterna le costruzioni di edilizia economica e popolare ad interi lotti oggetto di intervento edificatorio abusivo.
Una parte fondamentale la rivestono le cosiddette borgate ufficiali, ovvero quei quartieri residenziali nati durante il fascismo per ospitare la popolazione espulsa a vario titolo dal centro, sia per le demolizioni dei borghi storici, per far posto alla sublimazione dello sfarzo imperiale, sia a causa dell’aumento del costo degli affitti e della scarsità di abitazioni adatte ad ospitare i ceti operai e meno abbienti.
Accanto alle borgate ufficiali, Roma si è caratterizzata per essere luogo di spontanea e prolifica attività edilizia, nelle periferie, quasi sempre di natura abusiva, germogliata in contesti assolutamente degradati e privi di qualsiasi servizio, ai limiti dell’abitabilità.
Da ultimo, con la nascita dei cosiddetti nuovi quartieri, nella discontinuità che caratterizza i luoghi periferici, si sono inserite vere e proprie città nella città, che hanno occupato progressivamente aree di territorio sottratte alla campagna romana. Si tratta di quartieri generalmente caratterizzati da tipologie costruttive moderne e nati per essere nuove centralità, nel cui territorio spesso esiste un grosso aggregatore, come un centro commerciale, una chiesa, o un’altra struttura polifunzionale.
Tutte queste aree, a prescindere dal loro originario insediamento, sono isole di territorio non connesso, in cui le condizioni difficili di viabilità e trasporto contribuiscono, da un lato, al disagio dei residenti, costretti ad usare prevalentemente le auto private, dall’altro all’isolamento, tra loro, dei vari quartieri che vivono, quindi, come monadi solitarie.
La trasformazione urbana della città è difficile da cogliere se la si pensa come frutto del pensiero razionale, mentre è più accessibile se la si pensa come processo di adattamento spontaneo al caos, generatosi intorno alla pressione della speculazione edilizia. Questi luoghi (terreno da sempre dei processi migratori, un tempo interni, dalle regioni limitrofe verso la capitale, ora internazionali, con l’arrivo dei nuovi migranti) sono quasi sempre caratterizzati da condizioni di vita difficili, per mancanza di servizi sociali e culturali e le difficoltà di integrazione tra giovani famiglie romane e immigrati di ultima generazione, nel tentativo di condividere le non facili, ma altrettanto non impossibili, condizioni di vita nei quartieri.
La situazione delle periferie romane non è uniforme ed omogenea, ma anzi presenta forti diversità, legate sia alle caratteristiche residenziali (classi di età, livelli di relazionalità), sia alle più o meno marcate situazioni di disagio. Alcuni di questi luoghi sono noti ai più per la loro cattiva reputazione, altri sono invece del tutto sconosciuti; alcuni sono addensati di edifici dormitorio, altri sono borghi di una provincialità restituita alla città; alcuni sono periferia compiuta con una sua collaudata entropia, altri sono macchie nella campagna.
Lo stesso processo di adattamento spontaneo al caos che ha caratterizzato lo sviluppo del territorio si ritrova nell’attitudine delle diverse comunità territoriali di costruire una propria capacità adattiva attraverso forma di autorganizzazione spontanea e forme di associazionismo vitale e creativo, soprattutto giovanile. L’idea che le periferie siano abitate da genti disadattate che vanno riscattate dalla propria marginalità è una idea che molto probabilmente appartiene al passato ed è figlia di una cultura di governo basata su una visione stereotipata dello sviluppo: «[le periferie romane] non sono luoghi soltanto inerti e subalterni. Esprimono anzi molta vitalità, attraverso la miriade di iniziative, di sforzi collettivi, di forme collaborative, di interventi autogestiti, e anche di produzione culturale e costruzione di una solidarietà sociale tutta autoprodotta. Nelle periferie vivono esperienze molto interessanti da questo punto di vista, sebbene non vi siano politiche pubbliche realmente indirizzate in questo senso» (Carlo Cellamare – Fuori raccordo – Donzelli Editore, 2016); anzi, nella maggior parte dei casi è proprio l’assenza delle politiche pubbliche che ha determinato la nascita di molte esperienze di coinvolgimento spontaneo dei cittadini e lo sviluppo di un intenso associazionismo che copre molte priorità che i cittadini della periferia sentono nell’immediatezza del contingente: manutenzione delle strade, illuminazione, recupero di spazi dismessi, anche per scopi culturali, esperienze di giardini condivisi e orti urbani, fino all’offerta di servizi qualificati, come l’assistenza legale gratuita o la consulenza socio assistenziale per i soggetti deboli.
Inquadrato il tema nei termini generali, veniamo alle conclusioni: quale funzione attribuire alla fotografia, in questo processo di analisi, se non quella di offrire una potente e originale modalità di indagine volta non soltanto a documentare lo stato dei luoghi, ma anche a restituire una idea complessa e complessiva che riesca a proiettare lo sguardo, a prescindere dalle singole immagini, sull’intero, rendendo esplicito ciò che l’approfondimento sociologico urbanistico ed architettonico descrive già da tempo?
Al contempo, la fotografia può inoltre fornire un potente supporto alla spontanea ed intensa formazione di movimenti e comitati di base che, organizzando nuove forme di difesa della vivibilità urbana e sociale, possono invertire la tendenza imperante del consumo esasperato del suolo, con la formazione di nuove competenze in grado di provocare dal basso una concreta speranza di uscire dal circolo vizioso innescato dalle discutibili politiche di promozione della speculazione fondiaria.
Per concludere, quindi, questo lavoro non ha la pretesa della scientificità, né appartiene a terreni di indagine diversi dalla fotografia, ma vuole semplicemente offrire una conoscenza visiva dei luoghi nel loro oggettivo apparire, senza particolare enfasi o effetto posticcio e senza inseguire pietosi sociologismi “à la mode”, per invitare alla loro scoperta che io non avrei mai fatto se non mi avesse portato la passione di fotografare.

around malls: intorno ai centri commerciali

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mappa dei luoghi - around malls

I Centri Commerciali sono strutture complesse realizzate secondo “concept globali” che aggregano una grande quantità di persone che percepiscono i luoghi limitatamente ai locali che visitano: si viene proiettati in uno spazio di interni luminosi e appariscenti, assai stridente con il contesto urbano che li ospita, di cui non ci si rende minimamente conto. Nulla è casuale e tutto al loro interno ogni cosa ha una sua funzione progettata con attenzione, per far in modo che rumori, suoni e percorsi immergano il visitatore nella sola dimensione dell’acquisto. Una logica che stravolge totalmente la normale dimensione relazionale dell’acquisto, che diventa un fattore quasi obbligato in una dimensione di tempo e spazio avulsa dal contesto esterno e dalle persone.
Verso la rincorsa al primato dimensionale, occupano aree sempre più estese, configurandosi come centralità periferiche alternative alla città; non più deputate alle sole attività di consumo, sono diventate ambite mete attrattive, favorite dalla facile accessibilità e dalla dimensione monumentale.
Non possono più essere considerati “non luoghi”, ovvero monadi isolate dalla realtà cittadina e caratterizzate dall’assenza di scambi sociali, secondo la definizione storica di Marc Augé, ma anzi, come qualcuno li ha definiti, sono ora definibili “Superluoghi”. “Contrariamente ai non-luoghi, essi rivendicano una forte identità e una capacità d'attrazione: si distinguono come landmarks che dominano il territorio in cui sono inseriti, determinando, allo stesso tempo, una frattura rispetto alla città storica. Il prefisso “super” mette l'accento sulla loro funzione polivalente, e al contempo li oppone ai non-luoghi: piuttosto che zone d'ombra nel panorama cittadino, si sono affermati come icone di una nuova centralità.” (Federico Castigliano – Flaneur - 2017)
Con la loro presenza, annullano il territorio che li circonda, che pure ha una storia da raccontare, assai frequentemente fatta di un uso e consumo “distorto” del territorio, fuori da una concezione urbanistica pianificata e ancor più spesso oggetto di interventi di speculazione edilizia, in cui i Centri commerciali finiscono per essere l’unico elemento di integrazione relazionale e di aggregazione, centripeto collettore di ulteriore e disordinata espansione residenziale. Le foto di questo capitolo vogliono concentrarsi su questo. L'indagine sull'intorno serve a tener traccia e ricucire l'essenza del luogo, restituendone il più possibile una dimensione compiuta attraverso l'oggettivazione di particolari ed elementi diversi, rendendo evidente all'osservatore ciò che ai più passa inosservato.
Si tratta di immagini realizzate in sessioni di ripresa diverse e i luoghi sono sempre stati raggiunti (qualche volta non senza difficoltà) attraverso il sistema del trasporto pubblico, senza mai utilizzare l’automobile e le aree di parcheggio dei Centri, con l’intento di vivere una esperienza di avvicinamento graduale e progressivo a quel particolare tessuto urbano.

la città del papa: storie di chiese e di periferie

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mappa dei luoghi - suburbans churches

Questo capitolo esplora fotograficamente il territorio urbano intorno ai nuovi complessi parrocchiali realizzati, a partire dall’anno 2000 (anno del Grande Giubileo svoltosi durante il pontificato di Giovanni Paolo II), su iniziativa dell'Ufficio dell'Opera Romana per la Preservazione della Fede e la Provvista di Nuove Chiese (struttura operativa del Vicariato di Roma fondata nel 1930).
Il lavoro segue le indicazioni di un prezioso volume dal titolo “Chiese della periferia romana 2000-2013" che raccoglie gli esiti dei concorsi nazionali e degli incarichi diretti dall'Ufficio Pontificio, considerando il periodo che va dall'anno del Grande Giubileo del 2000 al 2013, ricorrenza del diciassettesimo secolo dell'editto di Costantino, anno della nascita ufficiale del Cristianesimo nella città di Roma (Marco Petreschi e Nilda Valentin - Electa, 2013).
Queste nuove chiese si collocano, nelle intenzioni dei progettisti, all’interno del territorio sostituendo le biblioteche, le piazze e i centri commerciali, nell’intento di rafforzare, o meglio di costruire, un fattore identitario per ciascun quartiere ubicato nelle aree periferiche urbane della città. Le chiese vengono quindi concepite come nuove forme di centralità all’interno di periferie rese autosufficienti rispetto al resto della città, con quartieri dotati di scuole, centri parrocchiali, biblioteche di quartiere, parchi, centri sportivi, cinema, teatro, sale per esposizioni, ecc.
Inutile dire che il nobile intento dei progettisti sia quasi sempre stato tradito nel seguito per via del sostanziale abbandono dei territori da parte delle diverse amministrazioni che si sono succedute nel tempo.
È pur vero che l’edificazione dei luoghi culto ha sempre accompagnato lo sviluppo della città, soprattutto nelle periferie, almeno a partire dal concordato del 1929. Inoltre, già a partire dalla seconda metà egli anni ’70 del ‘900 si era cercato, con la creazione di nuovi centri parrocchiali, di tamponare la mancanza cronica dei servizi sociali più importanti e ancora alla fine degli anni ’80 del Novecento, con la costruzione dei nuovi complessi parrocchiali con cui si tentava di creare spazi comunitari nei quartieri periferici senza servizi e con un alto tasso demografico. In quel periodo il Comune di Roma e la Pontificia Opera per la Preservazione della Fede programmarono l’edificazione di 50 nuove chiese da realizzarsi nella periferia cittadina unitamente all’edificazione di nuove piazze e fontane per rinsaldare il tessuto connettivo urbano e tentare di ricucire brani di città ormai degradati, orientando al contempo la crescita e lo sviluppo degli insediamenti di nuova costruzione.
Partendo da questi stessi presupposti, in occasione dell’anno giubilare del Duemila sono partite diverse iniziative volte a coinvolgere grandi architetti e nomi di fama internazionale nella realizzazione dei nuovi progetti. Molte delle chiese sono “firmate” da grandi architetti e tra queste spiccano Marco Petreschi, Richard Meier, Antonio Monestiroli, Alessandro Anselmi, Italo Rota, Francesco Garofalo. Degli edifici presi in considerazione probabilmente il lavoro più conosciuto è la Chiesa “Dives in Misericordia”, progettata dall’archistar internazionale Richard Meier e inaugurata il 26 ottobre del 2003, precedente originale nella storia dell'edilizia di culto.
Lo sguardo fotografico d’insieme ci consente di comprendere come le chiese non svolgano soltanto il ruolo di garanti della diffusione del culto e della fede, ma anche quello di avamposto all’avanzare della città e sono spesso delle “testa di ponte” delle iniziative speculative e di sfruttamento del suolo, quali veri e propri “aggregatori di interessi immobiliari”, con lo scopo di “valorizzare” gli insediamenti in gran parte abusivi e spontanei intorno ai quali orientare quel che resta della programmazione urbanistica e far nascere nuovi quartieri, in un contesto generale che assomiglia più ad una marmellata che ad una moderna città europea.
È difficile negare, infatti, l’intreccio tra interessi di fede e interessi immobiliari, soprattutto se si pensa che una delle più importanti società immobiliari della capitale - tra i maggiori proprietari fondiari e il più importante promotore edilizio della città - è stata la Società Generale Immobiliare di lavori di utilità pubblica ed agricola, nota come Società Generale Immobiliare o semplicemente Immobiliare (o SGI) di Roma, controllata dal Vaticano per poi passare, nel 1968, sotto il controllo di Michele Sindona e fallire nel 1987; questo gruppo Immobiliare operò in un vasto spettro di settori: dall’edilizia residenziale a quella direzionale, dalle strutture ricettive a quelle commerciali e ricreative, fino alle opere pubbliche e alle grandi infrastrutture.
A Roma, però, a partire dall’inizio degli anni Cinquanta del ‘900, l’attività dell’Immobiliare interessò quasi esclusivamente le zone periferiche e suburbane di espansione, disponendo di un ampio patrimonio di aree edificabili, in parte accumulato sin da prima della guerra, in virtù del quale figurava tra i principali proprietari fondiari della città.
Nel 2007, l’anno che precede la grande crisi del 2008, veniva approvato il Piano regolatore di Roma che, di fatto, consegnava lo sviluppo della città alla speculazione fondiaria negli anni a venire. Sono anche gli anni in cui si sviluppa il programma di edificazione delle chiese oggetto di questo lavoro: esaminandolo con uno sguardo d’insieme, osservando il posizionamento dei singoli edifici sulla mappa della città e seguendo la loro progressiva realizzazione, appare molto evidente l’intreccio tra interessi di fede e interessi immobiliari.
Come già osservato, questo processo non nasce negli ultimi anni, ma accompagna l’ampliamento di Roma dal Concordato del 1929 in poi: non a caso l’Opera Romana per la Preservazione della Fede e la Provvista di Nuove Chiese vede la luce il 5 agosto del 1930 per volontà di papa Pio XI col nome di “Pontificia opera per la preservazione della fede e la provvista di nuove chiese in Roma”, per divenire “affare romano”, per lettera apostolica in forma di Motu Propriu del 1º luglio 1989, diramata da papa Giovanni Paolo II che stabilì di far passare l’istituto sotto la giurisdizione immediata e diretta del Cardinale Vicario Generale per la Città di Roma.
Questo sviluppo dell’edilizia di culto accompagna l’inesorabile e disordinata espansione di Roma verso la periferia ed è un fenomeno che continua tutt’ora, nonostante i quartieri periferici siano sempre più luoghi multireligiosi in cui si registra il calo esponenziale della partecipazione religiosa della popolazione che si reca in chiesa. Ciononostante, nel 2010, nonostante i segni marcati della crisi dell’edilizia e nonostante quote crescenti di invenduto e di significativo calo di valore degli immobili, il Sindaco di Roma Gianni Alemanno ha annunciato la realizzazione di 51 nuovi istituti di culto nelle nuove periferie della città, in accordo col Vicariato.
In tutto questo le chiese sono lì, edifici riconoscibili, a marcare il territorio con una indicazione di fede che va spegnendosi, specialmente nelle nuove generazioni, annegate nella fredda funzionalità dei progettisti che le hanno volute così diverse dalle tipologie edilizie in cui sono immerse, da diventare cammei ad ornamento di uno stereotipato divenire.

la città produttiva

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mappa dei luoghi - la città produttiva

Si può affermare che Roma non possieda una tradizione industriale?
Sul punto, il “mainstream” dominante ha da sempre accreditato l’idea di una città “burocratica”, la cui attività “core” è costituita dall’area politico-amministrativa intesa in senso ampio, con tutto quello che vi gravita attorno.
A ben guardare, tuttavia, la città non è estranea alla presenza di una vivace realtà di piccola industria e manifattura artigiana che fin dall’inizio del secolo si concentrava in vere e proprie aree attrezzate come sull’Ostiense e in seguito sulla Tiburtina, con qualche impianto di dimensioni anche rilevanti, anche se, sia i numeri dell’impiego industriale vero e proprio, sia le dimensioni delle imprese e il loro orientamento produttivo, segnano una distanza molto marcata tra l’industria a Roma e quella dei grandi centri dell’Italia settentrionale.
“Roma come Capitale, dopo la Seconda guerra mondiale, poté mantenere un ruolo preminente di centro di mediazione politica, ma non venne assolutamente prevista una vera e propria riconversione delle industrie installate durante il conflitto, date le scarse risorse pubbliche e la mancanza di volontà dell’imprenditoria privata di rischiare investimenti su un tessuto già strutturalmente considerato debole e su cui gravavano più fattori critici, alcuni endemici della provincia capitolina, altri che solo allora si stavano configurando in maniera chiara.” (Giovanni Pietrangeli, Roma e la sua industria, un punto di vista sul secondo dopoguerra, Edizioni Ca’ Foscari, 2017).
Nel 1962, il primo Piano regolatore generale del dopoguerra, previde la realizzazione di un “asse attrezzato” nel quadrante orientale della città, ovvero di una infrastruttura logistico/viaria intorno alla quale collocare le attività di carattere direzionale e di servizio, con lo scopo di essere la spina dorsale del cosiddetto Sistema direzionale orientale (SDO), ovvero il fulcro della riorganizzazione amministrativa della città in previsione della sua espansione verso sud-est. Lo SDO rimase un progetto incompiuto ed insieme ad esso la città rinunciò, probabilmente per sempre, alla organizzazione programmata dello sviluppo del territorio; il decentramento dei servizi amministrativi della città verso la periferia sud-est avrebbe naturalmente comportato la riorganizzazione del territorio compreso tra Tiburtina e Tuscolana e, conseguentemente, della più importante area di localizzazione industriale romane.
Inoltre, dopo l’estensione dei confini della Cassa del Mezzogiorno, nel 1955, la delocalizzazione rappresentò la maniera con cui amministratori e operatori economici tentarono di distribuire il peso demografico e ampliare il mercato del lavoro, liberandosi dalle diseconomie connesse al mantenimento di un tessuto industriale urbano, lasciando di fatto spazio alle speculazioni e allo sviluppo della proprietà immobiliare. Espellendo, seppur indirettamente, le attività industriali dalla città, venne infatti facilitata l’espansione residenziale auspicata dalla potente proprietà fondiaria capitolina. In particolare, si verificò che l’attrazione delle localizzazioni industriali e dei conseguenti investimenti in area Casmez, comportarono una consistente migrazione di popolazione verso questi nuovi bacini produttivi e il conseguente aggravamento delle condizioni generali delle infrastrutture e dei servizi, generando un corto circuito nefasto nel rapporto tra città e hinterland e producendo un forte squilibrio delle condizioni socioeconomiche per l’intero territorio regionale. In buona sostanza, quindi, la mancanza, ancora una volta, di una politica del territorio, lasciava il sistema produttivo della capitale in balia delle sue debolezze e le attività produttive rimasero ostaggio delle commesse pubbliche e del settore delle costruzioni.
Nonostante la città abbia pertanto mostrato, nel tempo, segni di vitalità economica, anche e soprattutto in alcuni settori innovativi come l’elettronica e l’ICT, Roma era e rimane fortemente ancorata ai destini del comparto dell’edilizia. Oggi come ieri la Capitale risponde a due soli interessi dominanti, la politica e i palazzinari e dalla loro alleanza la città ne esce per quello che è visibile a tutti: uno scambio di favori continuo che vaga dal project financing al real estate development; conservando gli stessi nomi del boom economico-cementizio degli anni Sessanta, ha prodotto uno sviluppo disordinato non soltanto del tessuto urbano e residenziale, ma anche di ogni altro aspetto della vita sociale, non immuni le attività produttive.
Laddove nelle grandi metropoli lo sviluppo del tessuto urbano è accompagnato dallo sviluppo di aree produttive coerenti con l’impianto urbanistico e logistico, a Roma anche le aree di insediamento industriale si sono sviluppate in modo approssimativo ai margini della città, contribuendo all’idea complessiva di una città disordinata e disorganizzata, che trova nelle sue capacità di adattamento spontaneo e progressivo, la forza per sopravvivere al tempo. Lo stanziamento spontaneo di attività produttive e popolazione nelle aree limitrofe a Roma non è stato mai accompagnato dall’integrazione di funzioni e infrastrutture tra la città centrale e il territorio periferico.
A tutt’oggi la localizzazione delle aree produttive conferma, grosso modo, le direttrici storiche dello sviluppo cittadino, collocandosi essenzialmente lungo le principali vie consolari e producendo cisti metastatiche nel tessuto urbano, spesso senza soluzione di continuità con gli ambienti residenziali, tanto che lo stesso Gran Raccordo Anulare ha finito per diventare una vetrina di attività commerciali e produttive e l’unica direzionalità in grado di mettere a sistema tutti i principali luoghi e direttrici delle attività produttive romane (La città del Grande Raccordo Anulare, Marco Pietrolucci (a cura di), Gangemi, 2013).

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