ma che bella città
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date » 25-10-2022 14:28

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Ma che bella città

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il libro di www.machebellacitta.it

A Roma, a partire dall’inizio degli anni Cinquanta, l’attività di edificazione immobiliare interessò quasi esclusivamente le zone periferiche e suburbane della città, sfruttando un ampio patrimonio di aree edificabili, a disposizione dei principali proprietari fondiari della città.
Questo processo si inserisce in un disegno complessivo che ha sempre messo al centro delle politiche di sviluppo, le attività legate all’edilizia e alla rendita fondiaria.
Per valorizzare il patrimonio fondiario e le costruzioni si è assecondato un processo molto intenso di espansione incontrollata delle città, con il risultato di produrre rapidamente una rivalutazione del patrimonio immobiliare che ha spinto molti a cercare riparo abitativo nelle zone periferiche a più basso costo. Tutto questo agevolato da una serie nutrita di provvedimenti legislativi che, a partire dal 1994, hanno fortemente depotenziato il governo del territorio e la programmazione urbanistica. Il 2007 fu l’anno dell’approvazione del Piano regolatore di Roma con cui venivano consegnati alla speculazione fondiaria più di 80 milioni di metri cubi di cemento (Paolo Berdini, “Le città fallite”, Donzelli editore 2014).
Da sempre, quindi, questo sviluppo incontrollato dell’edilizia residenziale accompagna l’inesorabile e disordinata espansione di Roma verso la periferia, con un nucleo centrale sempre meno abitato ed interessante per la vita “civile” della città. L’espansione dal centro alla periferia. fisiologica in tutte le città, non vede a Roma uno sviluppo omogeneo; il tessuto urbano, soprattutto nelle aree periferiche, appare prevalentemente frammentato, con gli edifici, le strade e le coperture artificiali che si intrecciano e coesistono con ampie zone coperte da vegetazione e suolo nudo che occupano in maniera discontinua aree non trascurabili.
Il fenomeno procede per salti progressivi man mano che ci si allontana dal centro storico: appena di fuori delle Mura Aureliane, intorno a cui gravitano quasi tutti i 22 rioni di Roma e la maggior parte dei quartieri storici della capitale, lo sviluppo delle aree edificate e della viabilità si mostra continuo, come è il caso dell’Appio-Latino, o dei quartieri Flaminio, Monte Sacro, Parioli, Salario/Trieste e Trionfale.
Intorno ai quartieri storici iniziano le zone residenziali a tessuto discontinuo, di cui fanno parte i tessuti abitativi che si sono sviluppati negli ultimi sessant’anni e che possiamo suddividere, per semplificazione, in quartieri storici, borgate ufficiali, borgate spontanee e nuovi quartieri.
I quartieri storici sono quelli del Tiburtino, del Tuscolano, di Ostiense, sviluppatisi per lo più dopo la Seconda guerra mondiale ed hanno uno sviluppo residenziale che alterna le costruzioni di edilizia economica e popolare ad interi lotti oggetto di intervento edificatorio abusivo.
Una parte fondamentale la rivestono le cosiddette borgate ufficiali, ovvero quei quartieri residenziali nati durante il fascismo per ospitare la popolazione espulsa a vario titolo dal centro, sia per le demolizioni dei borghi storici, per far posto alla sublimazione dello sfarzo imperiale, sia a causa dell’aumento del costo degli affitti e della scarsità di abitazioni adatte ad ospitare i ceti operai e meno abbienti.
Accanto alle borgate ufficiali, Roma si è caratterizzata per essere luogo di spontanea e prolifica attività edilizia, nelle periferie, quasi sempre di natura abusiva, germogliata in contesti assolutamente degradati e privi di qualsiasi servizio, ai limiti dell’abitabilità.
Da ultimo, con la nascita dei cosiddetti nuovi quartieri, nella discontinuità che caratterizza i luoghi periferici, si sono inserite vere e proprie città nella città, che hanno occupato progressivamente aree di territorio sottratte alla campagna romana. Si tratta di quartieri generalmente caratterizzati da tipologie costruttive moderne e nati per essere nuove centralità, nel cui territorio spesso esiste un grosso aggregatore, come un centro commerciale, una chiesa, o un’altra struttura polifunzionale.
Tutte queste aree, a prescindere dal loro originario insediamento, sono isole di territorio non connesso, in cui le condizioni difficili di viabilità e trasporto contribuiscono, da un lato, al disagio dei residenti, costretti ad usare prevalentemente le auto private, dall’altro all’isolamento, tra loro, dei vari quartieri che vivono, quindi, come monadi solitarie.
La trasformazione urbana della città è difficile da cogliere se la si pensa come frutto del pensiero razionale, mentre è più accessibile se la si pensa come processo di adattamento spontaneo al caos, generatosi intorno alla pressione della speculazione edilizia. Questi luoghi (terreno da sempre dei processi migratori, un tempo interni, dalle regioni limitrofe verso la capitale, ora internazionali, con l’arrivo dei nuovi migranti) sono quasi sempre caratterizzati da condizioni di vita difficili, per mancanza di servizi sociali e culturali e le difficoltà di integrazione tra giovani famiglie romane e immigrati di ultima generazione, nel tentativo di condividere le non facili, ma altrettanto non impossibili, condizioni di vita nei quartieri.
La situazione delle periferie romane non è uniforme ed omogenea, ma anzi presenta forti diversità, legate sia alle caratteristiche residenziali (classi di età, livelli di relazionalità), sia alle più o meno marcate situazioni di disagio. Alcuni di questi luoghi sono noti ai più per la loro cattiva reputazione, altri sono invece del tutto sconosciuti; alcuni sono addensati di edifici dormitorio, altri sono borghi di una provincialità restituita alla città; alcuni sono periferia compiuta con una sua collaudata entropia, altri sono macchie nella campagna.
Lo stesso processo di adattamento spontaneo al caos che ha caratterizzato lo sviluppo del territorio si ritrova nell’attitudine delle diverse comunità territoriali di costruire una propria capacità adattiva attraverso forma di autorganizzazione spontanea e forme di associazionismo vitale e creativo, soprattutto giovanile. L’idea che le periferie siano abitate da genti disadattate che vanno riscattate dalla propria marginalità è una idea che molto probabilmente appartiene al passato ed è figlia di una cultura di governo basata su una visione stereotipata dello sviluppo: «[le periferie romane] non sono luoghi soltanto inerti e subalterni. Esprimono anzi molta vitalità, attraverso la miriade di iniziative, di sforzi collettivi, di forme collaborative, di interventi autogestiti, e anche di produzione culturale e costruzione di una solidarietà sociale tutta autoprodotta. Nelle periferie vivono esperienze molto interessanti da questo punto di vista, sebbene non vi siano politiche pubbliche realmente indirizzate in questo senso» (Carlo Cellamare – Fuori raccordo – Donzelli Editore, 2016); anzi, nella maggior parte dei casi è proprio l’assenza delle politiche pubbliche che ha determinato la nascita di molte esperienze di coinvolgimento spontaneo dei cittadini e lo sviluppo di un intenso associazionismo che copre molte priorità che i cittadini della periferia sentono nell’immediatezza del contingente: manutenzione delle strade, illuminazione, recupero di spazi dismessi, anche per scopi culturali, esperienze di giardini condivisi e orti urbani, fino all’offerta di servizi qualificati, come l’assistenza legale gratuita o la consulenza socio assistenziale per i soggetti deboli.
Inquadrato il tema nei termini generali, veniamo alle conclusioni: quale funzione attribuire alla fotografia, in questo processo di analisi, se non quella di offrire una potente e originale modalità di indagine volta non soltanto a documentare lo stato dei luoghi, ma anche a restituire una idea complessa e complessiva che riesca a proiettare lo sguardo, a prescindere dalle singole immagini, sull’intero, rendendo esplicito ciò che l’approfondimento sociologico urbanistico ed architettonico descrive già da tempo?
Al contempo, la fotografia può inoltre fornire un potente supporto alla spontanea ed intensa formazione di movimenti e comitati di base che, organizzando nuove forme di difesa della vivibilità urbana e sociale, possono invertire la tendenza imperante del consumo esasperato del suolo, con la formazione di nuove competenze in grado di provocare dal basso una concreta speranza di uscire dal circolo vizioso innescato dalle discutibili politiche di promozione della speculazione fondiaria.
Per concludere, quindi, questo lavoro non ha la pretesa della scientificità, né appartiene a terreni di indagine diversi dalla fotografia, ma vuole semplicemente offrire una conoscenza visiva dei luoghi nel loro oggettivo apparire, senza particolare enfasi o effetto posticcio e senza inseguire pietosi sociologismi “à la mode”, per invitare alla loro scoperta che io non avrei mai fatto se non mi avesse portato la passione di fotografare.

"Centopiazze" per Roma

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mappa dei luoghi - strade e piazze

Nel 1994 l’amministrazione comunale di Roma concepì un nuovo modello di città, collocando all’interno di questa idea di complessiva riconfigurazione urbana, l’obiettivo di ridisegnare e riqualificare gli spazi aperti. In questo contesto matura il programma “Centopiazze”, promosso e coordinato dall’Architetto Francesco Ghio, che dagli anni ’90 in poi, durante le consiliature dei Sindaci Francesco Rutelli e Walter Veltroni, ha interessato il territorio romano con numerosi interventi negli spazi pubblici dell’intera città: dal centro alla periferia più estrema.
Si è trattato di una grande iniziativa che ha coinvolto, probabilmente per l’unica volta dopo il dopoguerra, la città nella sua interezza, intervenendo in modo sistematico per la riqualificazione e la valorizzazione di interi quartieri, soprattutto periferici (ma non solo), partendo dalle piazze e dagli spazi aperti, per ricostituire il tessuto connettivo di un territorio frammentato e disordinato. Come abbiamo già messo in evidenza in altre parti, Roma contemporanea si presenta come una realtà polimorfa che alterna quartieri a densità variabile germogliati in modo a volte spontaneo all'interno dell’agro romano, senza una sua definita riconoscibilità, ma come disordine “auto organizzato“ modellato dall'incuria dell’amministrazione pubblica e dall'adattamento delle condizioni di vita determinato dalla mano dei cittadini residenti nelle zone periferiche, i quali si sono abituati a ricostruire condizioni di habitat al di fuori delle regole della programmazione urbana, ma coerenti con le esigenze di prossimità.
Il pensiero che animò i promotori del progetto “Centopiazze” voleva quindi rompere il circolo vizioso dello spontaneo adattarsi delle cose, verificatosi sino ad allora, con l‘idea che, intervenire su un complesso cittadino nel quale ridefinire le strutture elementari della relazione tra le persone e ravvivare lo spirito di partecipazione, potesse contribuire alla costruzione di una dimensione del vivere adeguata ad una condizione moderna. Erano quelli, infatti, anni di grande partecipazione e la caratteristica principale del progetto fu proprio quella di coinvolgere i cittadini alle decisioni e alle trasformazioni della città.
La mappa dei luoghi fotografati in questo capitolo, è stata ricostruita attraverso la consultazione di un prezioso volume pubblicato recentemente, quando l’idea di un approfondimento fotografico in quei posti era da me già stata presa in considerazione, ma il materiale che girava era assai scarso e, soprattutto, non esaustivo. Il volume “Programma Centopiazze per Roma” raccoglie la mappa degli interventi e una antologia di progetti che descrivono l’intero programma, su iniziata dall'Arch. Prof. Francesco Ghio, frutto di una ricerca condotta e portata a termine dalla Prof.ssa Maria Grazia Cianci.
Le fotografie, invece, testimoniano lo stato dei luoghi, lasciando libero l'osservatore di farsi una idea sulla più o meno riuscita degli intenti dei promotori di “Centopiazze”.

Grande Raccordo anulare ... che circonda la Capitale ...

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mappa dei luoghi - Grande Raccordo Anulare

... “e allora vieni con me, amore, sur grande raccordo anulare, che circonda la capitale. E nelle soste faremo l'amore, e se nasce una bambina poi la chiameremo: "rrrrrrrooooomaa" ...
Così Corrado Guzzanti inizia la parodia della celebre canzone di Antonello Venditti, Roma capoccia.
La canzone, sia pure in veste ironica, descrive bene il significato ed il senso dell'attraversare Roma utilizzando questa grande autostrada urbana le cui uscite sono evocative di storie, splendori e miserie della città ... soprattutto della città di periferia a cui il GRA avrebbe dovuto dare un confine, ma che ora si trova a condividerne il destino della crescita urbanistica disordinata, fungendo da collegamento funzionale tra le grandi vie consolari che si dipartono dal centro e rappresentando, ormai, l'unico nesso logico tra loro e le loro diversità.
Il Raccordo, come lo chiamano affettuosamente i romani, è percorso ogni anno da milioni di veicoli ed è celebre per le lunghe file che puntualmente si formano tra le sue diverse uscite, alcune puntuali come le code sull'A1 tra Calenzano e Barberino del Mugello, contendendo il primato alla altrettanto celebre tangenziale di Milano.
GRA potrebbe sembrare l’acronimo di Grande Raccordo Anulare, lungo anello di 68 km, ‘sacro’ protagonista del documentario diretto nel 2013 da Gianfranco Rosi, Leone d’Oro a Venezia; invece non è così e dietro le tre lettere si nasconde il cognome di Eugenio, l’ingegnere che per primo lo ha progettato negli anni ’50.
Il GRA è l’unica autostrada che porta il nome del suo ideatore, come quando, al tempo dei romani, le strade principali prendevano il nome dal console che ne chiedeva la costruzione.

nodi intermodali

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mappa dei luoghi - nodi intermodali

Una delle componenti essenziali per lo sviluppo di una città è la rete dei trasporti e il conseguente sistema logistico intorno al quale si materializzano gli spostamenti delle persone e delle merci. In particolare, il trasporto pubblico locale ha condizionato e condiziona tutt’ora pesantemente anche lo sviluppo di Roma ed in qualche modo accompagna, in una osmosi sovrapponibile, il suo disordinato divenire.
Il trasporto intermodale è caratterizzato da apposite strutture di interscambio, detti nodi intermodali, in cui è possibile cambiare il mezzo di trasporto utilizzato per il trasporto della merce o per il trasporto passeggeri. I nodi intermodali di scambio. Indagarli ci consente di cogliere quali sono le dinamiche che orientano gi spostamenti delle persone e la loro residenzialità urbana.
L'importanza di un nodo intermodale è determinata dal numero di infrastrutture di trasporto a disposizione, dal massimo volume di traffico sostenibile nel nodo e dalla sua ubicazione geografico-strategica lungo i principali flussi di trasporto.
Nei centri urbani, i nodi intermodali sono terminali di scambio tra trasporto urbano, trasporto interurbano e trasporto metropolitano e/o ferroviario. Il concetto di nodo di scambio abbraccia, quindi, questioni urbanistiche, ambientali, economiche e sociali. Questi luoghi garantiscono l'integrazione tra trasporto pubblico e mezzo privato e sono gli hub di una organizzazione di flussi e spostamenti particolarmente complicati nella Capitale, anche perché spesso risentono della stessa spontanea organizzazione che caratterizza lo sviluppo urbanistico di tutta la città.
Si supera pertanto l'aspetto meramente funzionale dei nodi di scambio, utili non soltanto alla fluidificazione degli spostamenti e al miglioramento dell'uso dei mezzi pubblici, ma anche per la qualità della vita, della salute e della sicurezza dei cittadini.
In diversi casi i luoghi e la loro denominazione hanno finito per diventare "toponimi" descrittivi della zona, riconosciuti come riferimenti familiari nei quali ritrovare non soltanto la propria modalità di trasporto, ma anche occasione di incontro o riferimento mentale (Laurentina, Anagnina, Rebibbia, Ponte Mammolo ...).
Ciò vale soprattutto per le aree della città ancora non servite che trovano nell'organizzazione del trasporto urbano e delle conseguenti centralità di scambio, uno dei capisaldi di connessione alla città. Una questione che diviene centrale nella cura e nella salvaguardia delle aree che presentano ancora importanti peculiarità naturalistiche, nell'agro romano o nelle zone limitrofe ai parchi o alle riserve naturali.
In questo capitolo ci si propone di documentare e raccontare questi luoghi e il territorio circostante in un modo oggettivo, anche se filtrato dalla sensibilità fotografica che cerca di restituire una esperienza di immersione progressiva e graduale nel territorio in cui, oltre alle infrastrutture, si ritrova un contesto urbano destrutturato, composto da una variegata serie di elementi spesso distonici tra loro e da storie estemporanee o ricorrenti di persone anche molto diverse tra loro.

around malls: intorno ai centri commerciali

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mappa dei luoghi - around malls

I Centri Commerciali sono strutture complesse realizzate secondo “concept globali” che aggregano una grande quantità di persone che percepiscono i luoghi limitatamente ai locali che visitano: si viene proiettati in uno spazio di interni luminosi e appariscenti, assai stridente con il contesto urbano che li ospita, di cui non ci si rende minimamente conto. Nulla è casuale e tutto al loro interno ogni cosa ha una sua funzione progettata con attenzione, per far in modo che rumori, suoni e percorsi immergano il visitatore nella sola dimensione dell’acquisto. Una logica che stravolge totalmente la normale dimensione relazionale dell’acquisto, che diventa un fattore quasi obbligato in una dimensione di tempo e spazio avulsa dal contesto esterno e dalle persone.
Verso la rincorsa al primato dimensionale, occupano aree sempre più estese, configurandosi come centralità periferiche alternative alla città; non più deputate alle sole attività di consumo, sono diventate ambite mete attrattive, favorite dalla facile accessibilità e dalla dimensione monumentale.
Non possono più essere considerati “non luoghi”, ovvero monadi isolate dalla realtà cittadina e caratterizzate dall’assenza di scambi sociali, secondo la definizione storica di Marc Augé, ma anzi, come qualcuno li ha definiti, sono ora definibili “Superluoghi”. “Contrariamente ai non-luoghi, essi rivendicano una forte identità e una capacità d'attrazione: si distinguono come landmarks che dominano il territorio in cui sono inseriti, determinando, allo stesso tempo, una frattura rispetto alla città storica. Il prefisso “super” mette l'accento sulla loro funzione polivalente, e al contempo li oppone ai non-luoghi: piuttosto che zone d'ombra nel panorama cittadino, si sono affermati come icone di una nuova centralità.” (Federico Castigliano – Flaneur - 2017)
Con la loro presenza, annullano il territorio che li circonda, che pure ha una storia da raccontare, assai frequentemente fatta di un uso e consumo “distorto” del territorio, fuori da una concezione urbanistica pianificata e ancor più spesso oggetto di interventi di speculazione edilizia, in cui i Centri commerciali finiscono per essere l’unico elemento di integrazione relazionale e di aggregazione, centripeto collettore di ulteriore e disordinata espansione residenziale. Le foto di questo capitolo vogliono concentrarsi su questo. L'indagine sull'intorno serve a tener traccia e ricucire l'essenza del luogo, restituendone il più possibile una dimensione compiuta attraverso l'oggettivazione di particolari ed elementi diversi, rendendo evidente all'osservatore ciò che ai più passa inosservato.
Si tratta di immagini realizzate in sessioni di ripresa diverse e i luoghi sono sempre stati raggiunti (qualche volta non senza difficoltà) attraverso il sistema del trasporto pubblico, senza mai utilizzare l’automobile e le aree di parcheggio dei Centri, con l’intento di vivere una esperienza di avvicinamento graduale e progressivo a quel particolare tessuto urbano.

la città del papa: storie di chiese e di periferie

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mappa dei luoghi - suburbans churches

Questo capitolo esplora fotograficamente il territorio urbano intorno ai nuovi complessi parrocchiali realizzati, a partire dall’anno 2000 (anno del Grande Giubileo svoltosi durante il pontificato di Giovanni Paolo II), su iniziativa dell'Ufficio dell'Opera Romana per la Preservazione della Fede e la Provvista di Nuove Chiese (struttura operativa del Vicariato di Roma fondata nel 1930).
Il lavoro segue le indicazioni di un prezioso volume dal titolo “Chiese della periferia romana 2000-2013" che raccoglie gli esiti dei concorsi nazionali e degli incarichi diretti dall'Ufficio Pontificio, considerando il periodo che va dall'anno del Grande Giubileo del 2000 al 2013, ricorrenza del diciassettesimo secolo dell'editto di Costantino, anno della nascita ufficiale del Cristianesimo nella città di Roma (Marco Petreschi e Nilda Valentin - Electa, 2013).
Queste nuove chiese si collocano, nelle intenzioni dei progettisti, all’interno del territorio sostituendo le biblioteche, le piazze e i centri commerciali, nell’intento di rafforzare, o meglio di costruire, un fattore identitario per ciascun quartiere ubicato nelle aree periferiche urbane della città. Le chiese vengono quindi concepite come nuove forme di centralità all’interno di periferie rese autosufficienti rispetto al resto della città, con quartieri dotati di scuole, centri parrocchiali, biblioteche di quartiere, parchi, centri sportivi, cinema, teatro, sale per esposizioni, ecc.
Inutile dire che il nobile intento dei progettisti sia quasi sempre stato tradito nel seguito per via del sostanziale abbandono dei territori da parte delle diverse amministrazioni che si sono succedute nel tempo.
È pur vero che l’edificazione dei luoghi culto ha sempre accompagnato lo sviluppo della città, soprattutto nelle periferie, almeno a partire dal concordato del 1929. Inoltre, già a partire dalla seconda metà egli anni ’70 del ‘900 si era cercato, con la creazione di nuovi centri parrocchiali, di tamponare la mancanza cronica dei servizi sociali più importanti e ancora alla fine degli anni ’80 del Novecento, con la costruzione dei nuovi complessi parrocchiali con cui si tentava di creare spazi comunitari nei quartieri periferici senza servizi e con un alto tasso demografico. In quel periodo il Comune di Roma e la Pontificia Opera per la Preservazione della Fede programmarono l’edificazione di 50 nuove chiese da realizzarsi nella periferia cittadina unitamente all’edificazione di nuove piazze e fontane per rinsaldare il tessuto connettivo urbano e tentare di ricucire brani di città ormai degradati, orientando al contempo la crescita e lo sviluppo degli insediamenti di nuova costruzione.
Partendo da questi stessi presupposti, in occasione dell’anno giubilare del Duemila sono partite diverse iniziative volte a coinvolgere grandi architetti e nomi di fama internazionale nella realizzazione dei nuovi progetti. Molte delle chiese sono “firmate” da grandi architetti e tra queste spiccano Marco Petreschi, Richard Meier, Antonio Monestiroli, Alessandro Anselmi, Italo Rota, Francesco Garofalo. Degli edifici presi in considerazione probabilmente il lavoro più conosciuto è la Chiesa “Dives in Misericordia”, progettata dall’archistar internazionale Richard Meier e inaugurata il 26 ottobre del 2003, precedente originale nella storia dell'edilizia di culto.
Lo sguardo fotografico d’insieme ci consente di comprendere come le chiese non svolgano soltanto il ruolo di garanti della diffusione del culto e della fede, ma anche quello di avamposto all’avanzare della città e sono spesso delle “testa di ponte” delle iniziative speculative e di sfruttamento del suolo, quali veri e propri “aggregatori di interessi immobiliari”, con lo scopo di “valorizzare” gli insediamenti in gran parte abusivi e spontanei intorno ai quali orientare quel che resta della programmazione urbanistica e far nascere nuovi quartieri, in un contesto generale che assomiglia più ad una marmellata che ad una moderna città europea.
È difficile negare, infatti, l’intreccio tra interessi di fede e interessi immobiliari, soprattutto se si pensa che una delle più importanti società immobiliari della capitale - tra i maggiori proprietari fondiari e il più importante promotore edilizio della città - è stata la Società Generale Immobiliare di lavori di utilità pubblica ed agricola, nota come Società Generale Immobiliare o semplicemente Immobiliare (o SGI) di Roma, controllata dal Vaticano per poi passare, nel 1968, sotto il controllo di Michele Sindona e fallire nel 1987; questo gruppo Immobiliare operò in un vasto spettro di settori: dall’edilizia residenziale a quella direzionale, dalle strutture ricettive a quelle commerciali e ricreative, fino alle opere pubbliche e alle grandi infrastrutture.
A Roma, però, a partire dall’inizio degli anni Cinquanta del ‘900, l’attività dell’Immobiliare interessò quasi esclusivamente le zone periferiche e suburbane di espansione, disponendo di un ampio patrimonio di aree edificabili, in parte accumulato sin da prima della guerra, in virtù del quale figurava tra i principali proprietari fondiari della città.
Nel 2007, l’anno che precede la grande crisi del 2008, veniva approvato il Piano regolatore di Roma che, di fatto, consegnava lo sviluppo della città alla speculazione fondiaria negli anni a venire. Sono anche gli anni in cui si sviluppa il programma di edificazione delle chiese oggetto di questo lavoro: esaminandolo con uno sguardo d’insieme, osservando il posizionamento dei singoli edifici sulla mappa della città e seguendo la loro progressiva realizzazione, appare molto evidente l’intreccio tra interessi di fede e interessi immobiliari.
Come già osservato, questo processo non nasce negli ultimi anni, ma accompagna l’ampliamento di Roma dal Concordato del 1929 in poi: non a caso l’Opera Romana per la Preservazione della Fede e la Provvista di Nuove Chiese vede la luce il 5 agosto del 1930 per volontà di papa Pio XI col nome di “Pontificia opera per la preservazione della fede e la provvista di nuove chiese in Roma”, per divenire “affare romano”, per lettera apostolica in forma di Motu Propriu del 1º luglio 1989, diramata da papa Giovanni Paolo II che stabilì di far passare l’istituto sotto la giurisdizione immediata e diretta del Cardinale Vicario Generale per la Città di Roma.
Questo sviluppo dell’edilizia di culto accompagna l’inesorabile e disordinata espansione di Roma verso la periferia ed è un fenomeno che continua tutt’ora, nonostante i quartieri periferici siano sempre più luoghi multireligiosi in cui si registra il calo esponenziale della partecipazione religiosa della popolazione che si reca in chiesa. Ciononostante, nel 2010, nonostante i segni marcati della crisi dell’edilizia e nonostante quote crescenti di invenduto e di significativo calo di valore degli immobili, il Sindaco di Roma Gianni Alemanno ha annunciato la realizzazione di 51 nuovi istituti di culto nelle nuove periferie della città, in accordo col Vicariato.
In tutto questo le chiese sono lì, edifici riconoscibili, a marcare il territorio con una indicazione di fede che va spegnendosi, specialmente nelle nuove generazioni, annegate nella fredda funzionalità dei progettisti che le hanno volute così diverse dalle tipologie edilizie in cui sono immerse, da diventare cammei ad ornamento di uno stereotipato divenire.

la città produttiva

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mappa dei luoghi - la città produttiva

Si può affermare che Roma non possieda una tradizione industriale?
Sul punto, il “mainstream” dominante ha da sempre accreditato l’idea di una città “burocratica”, la cui attività “core” è costituita dall’area politico-amministrativa intesa in senso ampio, con tutto quello che vi gravita attorno.
A ben guardare, tuttavia, la città non è estranea alla presenza di una vivace realtà di piccola industria e manifattura artigiana che fin dall’inizio del secolo si concentrava in vere e proprie aree attrezzate come sull’Ostiense e in seguito sulla Tiburtina, con qualche impianto di dimensioni anche rilevanti, anche se, sia i numeri dell’impiego industriale vero e proprio, sia le dimensioni delle imprese e il loro orientamento produttivo, segnano una distanza molto marcata tra l’industria a Roma e quella dei grandi centri dell’Italia settentrionale.
“Roma come Capitale, dopo la Seconda guerra mondiale, poté mantenere un ruolo preminente di centro di mediazione politica, ma non venne assolutamente prevista una vera e propria riconversione delle industrie installate durante il conflitto, date le scarse risorse pubbliche e la mancanza di volontà dell’imprenditoria privata di rischiare investimenti su un tessuto già strutturalmente considerato debole e su cui gravavano più fattori critici, alcuni endemici della provincia capitolina, altri che solo allora si stavano configurando in maniera chiara.” (Giovanni Pietrangeli, Roma e la sua industria, un punto di vista sul secondo dopoguerra, Edizioni Ca’ Foscari, 2017).
Nel 1962, il primo Piano regolatore generale del dopoguerra, previde la realizzazione di un “asse attrezzato” nel quadrante orientale della città, ovvero di una infrastruttura logistico/viaria intorno alla quale collocare le attività di carattere direzionale e di servizio, con lo scopo di essere la spina dorsale del cosiddetto Sistema direzionale orientale (SDO), ovvero il fulcro della riorganizzazione amministrativa della città in previsione della sua espansione verso sud-est. Lo SDO rimase un progetto incompiuto ed insieme ad esso la città rinunciò, probabilmente per sempre, alla organizzazione programmata dello sviluppo del territorio; il decentramento dei servizi amministrativi della città verso la periferia sud-est avrebbe naturalmente comportato la riorganizzazione del territorio compreso tra Tiburtina e Tuscolana e, conseguentemente, della più importante area di localizzazione industriale romane.
Inoltre, dopo l’estensione dei confini della Cassa del Mezzogiorno, nel 1955, la delocalizzazione rappresentò la maniera con cui amministratori e operatori economici tentarono di distribuire il peso demografico e ampliare il mercato del lavoro, liberandosi dalle diseconomie connesse al mantenimento di un tessuto industriale urbano, lasciando di fatto spazio alle speculazioni e allo sviluppo della proprietà immobiliare. Espellendo, seppur indirettamente, le attività industriali dalla città, venne infatti facilitata l’espansione residenziale auspicata dalla potente proprietà fondiaria capitolina. In particolare, si verificò che l’attrazione delle localizzazioni industriali e dei conseguenti investimenti in area Casmez, comportarono una consistente migrazione di popolazione verso questi nuovi bacini produttivi e il conseguente aggravamento delle condizioni generali delle infrastrutture e dei servizi, generando un corto circuito nefasto nel rapporto tra città e hinterland e producendo un forte squilibrio delle condizioni socioeconomiche per l’intero territorio regionale. In buona sostanza, quindi, la mancanza, ancora una volta, di una politica del territorio, lasciava il sistema produttivo della capitale in balia delle sue debolezze e le attività produttive rimasero ostaggio delle commesse pubbliche e del settore delle costruzioni.
Nonostante la città abbia pertanto mostrato, nel tempo, segni di vitalità economica, anche e soprattutto in alcuni settori innovativi come l’elettronica e l’ICT, Roma era e rimane fortemente ancorata ai destini del comparto dell’edilizia. Oggi come ieri la Capitale risponde a due soli interessi dominanti, la politica e i palazzinari e dalla loro alleanza la città ne esce per quello che è visibile a tutti: uno scambio di favori continuo che vaga dal project financing al real estate development; conservando gli stessi nomi del boom economico-cementizio degli anni Sessanta, ha prodotto uno sviluppo disordinato non soltanto del tessuto urbano e residenziale, ma anche di ogni altro aspetto della vita sociale, non immuni le attività produttive.
Laddove nelle grandi metropoli lo sviluppo del tessuto urbano è accompagnato dallo sviluppo di aree produttive coerenti con l’impianto urbanistico e logistico, a Roma anche le aree di insediamento industriale si sono sviluppate in modo approssimativo ai margini della città, contribuendo all’idea complessiva di una città disordinata e disorganizzata, che trova nelle sue capacità di adattamento spontaneo e progressivo, la forza per sopravvivere al tempo. Lo stanziamento spontaneo di attività produttive e popolazione nelle aree limitrofe a Roma non è stato mai accompagnato dall’integrazione di funzioni e infrastrutture tra la città centrale e il territorio periferico.
A tutt’oggi la localizzazione delle aree produttive conferma, grosso modo, le direttrici storiche dello sviluppo cittadino, collocandosi essenzialmente lungo le principali vie consolari e producendo cisti metastatiche nel tessuto urbano, spesso senza soluzione di continuità con gli ambienti residenziali, tanto che lo stesso Gran Raccordo Anulare ha finito per diventare una vetrina di attività commerciali e produttive e l’unica direzionalità in grado di mettere a sistema tutti i principali luoghi e direttrici delle attività produttive romane (La città del Grande Raccordo Anulare, Marco Pietrolucci (a cura di), Gangemi, 2013).

Ai margini degli Archi

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"C’era n’arco, e qui ce se costruiva casa. Sotto l’arco: ce s’attaccavano i travi, e si faceva il tetto. Poi, chi c’aveva la possibilità di farlo in muratura, s’o faceva in muratura: ma quasi tutti. Perché poi papà faceva il muratore; co’ questi qua se metteva daccordo, un po’ pijava la pozzolana, poi costruivano. Non c’era manco sta cosa che uno doveva fa’ i sòrdi: no, se davano ‘na mano tutti quanti, l’uno co’ l’altro, pe’ fa’ ‘a casa." (Daniele Bianchi, ex baraccato).

“Ricordo che un giorno passando per il Mandrione … c’erano, davanti ai loro tuguri, a ruzzare sul fango lurido, dei ragazzini, dai due ai quattro o cinque anni. Erano vestiti con degli stracci … correvano qua e là, senza le regole di un giuoco qualsiasi: si muovevano, si agitavano come se fossero ciechi, in quei pochi metri quadrati dov’erano nati e dove erano sempre rimasti …” (Pier Paolo Pasolini, “Vie Nuove”, maggio 1958).

Nel luogo dove oggi si estende il percorso degli acquedotti Alessandrino, Felice e Claudio, in parte all’interno del Parco degli Acquedotti, ai margini degli archi, fino agli inizi degli anni Settanta si allargava una delle baraccopoli più ampie di Roma. Un disagio tenuto nascosto sotto il tappeto della città per decenni. La zona fu inizialmente occupata dagli sfollati del bombardamento di San Lorenzo del 1943, che vi costruirono delle baracche sotto gli archi dell’acquedotto Felice.

La maggior parte degli abitanti dell’acquedotto erano braccianti o contadini provenienti dalle campagne circostanti, dagli Abruzzi o dal Sud Italia, immigrati illegalmente per lavorare come manovali o muratori nei tanti cantieri della città in espansione, respinti dalla città, fino al 1961, dalle leggi «contro l’urbanesimo» promulgate durante il regime fascista, con cui venivano allontanati dalla città coloro che non avevano un contratto di lavoro già stipulato.
Molti erano operai edili e si costruirono da soli queste abitazioni di fortuna, utilizzando materiali riciclati dalle demolizioni o dai cantieri e accompagnate da un orto. Le costruzioni si estendevano su entrambi i lati dell’acquedotto; nel corso del tempo di fronte ad esse, sia da un lato che dall’altro, ne sorsero altre, indipendenti dall’acquedotto.
La vita, lì, continuò ben oltre la guerra, sotto gli archi chiusi alla meno peggio e in terribili condizioni igieniche, scandalo della Roma ai tempi del boom economico e fino alla fine degli anni '70 del 900. Un ricordo lontano che sembra ora tornare, con le nuove baracche di Tor Fiscale, decine di abitazioni abusive costruite sulle orme delle precedenti del dopoguerra e affittate, a prezzi vertiginosi, a stranieri senza permesso di soggiorno, ma anche a italiani, che sono almeno la metà.

Gli archi romani sono sempre là!

Bruno Panieri: il libro di www.machebellacittà.it

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